
Nell’odierna Festività dei Santi Magi, ci viene offerta una interessante cronistoria su questo medesimo giorno vissuto da Francesco Forgione, il futuro Padre Pio quando, nel giorno dell’Epifania del 6 Gennaio 1903, egli entra nel Convento di Morcone, in provincia di Benevento.
Nel piccolo Convento, che disponeva di una ventina di stanzette, idonee per ospitare gli aspiranti alla vita religiosa, venne accolto Francesco, per il famoso anno di prova del “santo noviziato”, durante il quale, nel rigore della regola francescana, doveva essere “verificata” la semplicità e la veridicità della vocazione.
Al Convento era annessa una piccola chiesa, dedicata ai Santi Filippo e Giacomo, la cui facciata era di pietra viva, mentre l’Altare, al centro della Navata Maggiore, era di pietra intarsiata.
All’interno vi era un “coro”, protetto da una balaustra, con un grande Crocifisso e il leggìo per il voluminoso Salterio.
In questa chiesa, il 6 Gennaio del 1903, entrò il sedicenne Francesco Forgione, in compagnia dei coetanei Vincenzo Masone e Antonio Bonavita, del maestro Angelo Caccavo, nonché di Don Nicola Caruso, un giovane Sacerdote che rappresentava il Parroco.
Francesco, dopo aver salutato Gesù Sacramentato e la Sua Santissima Madre, fu attratto dal “piccolo presepe” e, mentre l’ammirava, fece notare con l’indice ai suoi compagni le statuine dei Magi, sicuramente aggiunti da poche ore davanti alla capanna.
Era quello, infatti, il giorno dell’Epifania, un giorno che rimase profondamente scolpito nella mente di Francesco, il quale, da Sacerdote e a distanza di anni, così poi dirà a una figlia spirituale: “Oggi è l’Epifania!
Fu in questo stesso giorno che andai via da casa, per donare la mia vita a Gesù“.
Il piccolo gruppo, quindi, uscì dalla chiesetta e si avvicinò all’antica porta del Convento, ormai annerita dal tempo; qui Don Nicola agitò la corda di una piccola campana, che non esitó a far sentire la sua voce, per annunciare il loro arrivo.
Francesco si fece avanti ed entrò per primo e, dopo un iniziale silenzio, si udì un sonoro strisciar di sandali.
Poco dopo apparve l’austera figura di un religioso: era Frà Camillo da Sant’Elia a Pianisi, proprio il fratello laico che, spingendosi fino a Pietrelcina per la questua, aveva suscitato nel piccolo Francesco il desiderio di farsi “monaco con la barba”.
Il Frate riconobbe subito il ragazzo, così se lo strinse a sé e, con la sua immancabile effusione paterna, gli disse: “Eh Francì! Bravo, bravo; sei stato fedele alla promessa e alla chiamata di San Francesco”.
Quindi fece entrare tutti e si affrettò a chiamare il Superiore, Padre Francesco Maria da Sant’Elia a Pianisi e Padre Tommaso da Monte Sant’Angelo, il Maestro dei novizi.
I Religiosi accolsero il gruppo con vivo calore.
Vi furono le presentazioni, i saluti e i convenevoli.
Poco dopo, in una cella, si svolsero “gli esami”.
Francesco Forgione e Vincenzo Masone sostennero una prova di cultura generale, di italiano, di latino, di storia e geografia.
Vennero interrogati dal Commissario Generale della Provincia Monastica, l’Abate Padre Pio da Fragneto, dal Guardiano del Convento e dal Maestro dei novizi: entrambi furono dichiarati idonei.
Poi fu la volta di Antonio Bonavita: anche questo ragazzo venne approvato, ma, poiché si accertò che, non aveva l’età regolamentare prevista per entrare in Convento, dovette tornarsene deluso a Pietrelcina, tra lo sgomento del Maestro Caccavo e il dispiacere di Francesco e Vincenzo, i quali, ormai, si erano abituati all’idea di rimanere tutti insieme a Morcone.
I due vennero portati subito in cucina per rifocillarsi, mentre, subito dopo nel pomeriggio, furono lasciati liberi, per rendersi conto di come era strutturato il Convento.
Francesco ritornò per un attimo all’ingresso, poiché voleva rileggere la grossa scritta che, dall’alto di una parete l’aveva tanto colpito, sulla quale si leggeva: “O Penitenza o Inferno!“
L’alternativa non consentiva esitazioni e, così, Francesco fece mentalmente la sua scelta, per orientare tutta la sua vita sulla “penitenza”, seguendo quella del Serafico Padre San Francesco, per Annunciare il Regno di Dio, come aveva voluto Gesù.
In pratica la sua vita era già consacrata a Dio e, in ogni caso, sarebbe stata una “penitenza” ma, in quel momento, egli promise con gioia che avrebbe affrontato ogni forma di mortificazione, per la salvezza della sua anima e per il bene del prossimo, quindi “Tutto fuorché l’Inferno!”
Subito dopo tale personale riflessione, tentò di raggiungere l’amico Vincenzo Masone, per renderlo partecipe del suo proposito e per invogliarlo alla medesima scelta, ma, in quel momento, si imbatté in un’altra scritta, che lo fece trasalire: “Silentium quia locus novitiorum est”.
Quindi, dedusse che occorreva “il silenzio” per custodire lo spirito interiore, per tutelare la preghiera, lo studio, la riflessione e per ascoltare solo la Voce di Dio.
Poi, nel risalire la scalinata, sul pianerottolo i suoi occhi incontrano quelli “umidi di pianto” della Vergine Addolorata che, da un’antica tela, lo fissavano, mentre, sotto, si leggeva ancora una scritta in latino: “Hinc transire cave nisi prius dixerit Ave” (“Guardati dal passare oltre senza aver detto Ave”).
Francesco con devozione salutò la Madonna e, affidandoLe un bacio sulla punta delle Sue dita, attraversò il corridoio.
Strada facendo, volle dare un’occhiata alle celle, restando meravigliato che fossero tanto piccole e, in quel frangente, incontrò l’amico Vincenzo CHE l’aspettava, per andare insieme a visitare il giardino; lì si fermarono sotto un alto cipresso, scambiandosi le prime impressioni.
Dal Convento, intanto, giungevano le voci dei frati che, in coro, recitavano il “Vespro”.
Era pieno inverno e ben presto scesero le prime ombre della sera.
Dopo cena, il Padre Maestro accompagnò i ragazzi nelle celle che erano state loro assegnate e a Francesco toccò la numero 28.
Sull’architrave della stessa egli lesse un’altra scritta: “Voi siete morti e la vostra vita è nascosta in Cristo, in Dio”.
Le parole di tale frase, piuttosto rigide, suscitarono in lui un certo timore e, nell’istante in cui la porta si chiuse, il giovane Francesco si trovò solo tra quattro mura, occupate da un lettino, da un piccolo tavolo, da una sedia e da un catino, sorretto da un trìpode di ferro sottile.
Quando tutte le luci furono spente, un chiarore lunare illuminò l’espressione penante del grande Crocifisso, Che pendeva da una delle pareti della sua stanza.
Fu in quel momento che l’anima di Francesco venne coinvolta da una naturale e inevitabile nostalgia e, così, gli tornò in mente il papà, lontano oltreoceano; la sua casa; i suoi fratelli; tutti i parenti e, in particolare, la sua mamma, poiché il commiato da lei era stato piuttosto doloroso.
Egli, infatti, sentiva ancora le sue braccia intorno al collo e la sua triste voce, con la quale espresse, in maniera evidente, il dolore della sua partenza: “Figlio mio… mi sento squarcia’ ‘u core; ma non pensare al dolore di tua madre, poiché San Francesco ti chiama e devi andare…”.
Il ragazzo in quel momento non resse più, si gettò sul pagliericcio di foglie di granturco e scoppiò a piangere, mentre il nodo, che gli serrava la gola, lentamente si scioglieva.
Le sue labbra ripetevano ancora la parola “mamma”, mentre baciavano una Corona stretta tra le mani che, all’ultimo momento, prima di partire, gliela aveva data la sua mamma.
In tale frangente, presto fu rincuorato dal fatto che, quale devoto della Madonna, non poteva che emergere nel suo cuore la sicurezza di poter contare, nella sua nuova vita, sull’Aiuto di un’altra Madre: la Santissima Madre Celeste.
Tutto ciò a conferma che un vero Sacerdote, quindi anche un Frate Francescano come lui, non poteva che essere “Mariano in Eterno”!