
Nel 711 il berbero Tariq invade la Spagna e, al momento della battaglia, una parte delle truppe abbandona il re Roderico. L’islam vince la partita in pochi anni. Come? Come sempre. Come ordina Allah attraverso Maometto: col terrore. Della cultura romana e della tradizione visigota non resta traccia. Biblioteche, archivi, chiese e monasteri scompaiono. La Spagna romano-gota semplicemente non c’è più. Non ci deve essere più. Adesso c’è al-Andalus. Il terrore funziona e nel giro di qualche tempo si passa ad un regime più tollerante che prevede per i vinti e per la loro religione non una morte violenta ma una morte lenta, quasi indolore. Per regolare i rapporti fra musulmani e cristiani viene applicato anche in Spagna il patto imposto dal califfo Omar agli abitanti di Gerusalemme nel 637. Il patto dà ai cristiani la garanzia di non essere uccisi in cambio della totale perdita della libertà religiosa accompagnata dalla supina accettazione di vessazioni di ogni tipo imposte dai vincitori. Mentre tutto è perso, mentre le città sono crollate e tutto il territorio è occupato, un pugno di uomini resiste, fugge a nord e trova rifugio nell’impervia natura delle montagne asturiane. Il loro capo è Pelagio. Comportamento ragionevole? All’apparenza no. Come può un piccolo gruppo di uomini asserragliati sulla cima dei monti – si parla di 300 persone – sperare di avere la meglio contro un esercito invasore vittorioso che ha già soggiogato tutta la Spagna? Proprio questa semplice e all’apparenza ovvia considerazione è quella che Oppas, l’eretico vescovo di Siviglia fattosi banditore della causa degli invasori, grida a Pelagio: “l’intero esercito dei goti non ha potuto resistere alla forza dei musulmani, come puoi resistere tu su questo monte? Segui il mio consiglio, abbandona i tuoi sforzi, e vivrai felice con i tanti benefici che i mori ti daranno”. Quando la dignità degli uomini è calpestata qualche singolo individuo può avere la forza di resistere affrontando un destino di sofferenza e di morte. Quando è un intero popolo che resiste le cose sono più complesse. C’è bisogno di una forza potente che aiuti anche le persone normali a opporsi all’ingiustizia e al sopruso. Questa forza è la fede. La fede che permette ad Abramo di sperare contro ogni speranza di avere un figlio (lui che ha 100 anni, mentre la moglie Sara ne ha 90) e che gli permette anche di obbedire a Dio quando gli viene chiesto di sacrificare il suo unico figlio. La fede che permette a Mosè di liberare un popolo di schiavi dall’oppressione del faraone, l’uomo più potente del mondo. La fede che consente ai cristiani di ogni ceto sociale e di ogni età di resistere alle torture e alla morte che per tre interminabili secoli l’impero romano infligge loro. È la fede che permette a Pelagio di rispondere ad Oppas così: “non hai letto nelle Sacre Scritture che la chiesa del Signore è come il seme di senape che, piccolo come è, per grazia di Dio diventa più grande di tutti?”; “la nostra speranza è Cristo; questo monte sarà la salvezza della Spagna e del popolo dei goti; la grazia di Cristo ci libererà da questa moltitudine”. Il racconto di questi fatti risalenti agli anni venti dell’ottavo secolo è contenuto nella Crónica albeldense (Cronaca di Albelda) fatta redigere un secolo e mezzo dopo sotto il regno di Alfonso III. Che attendibilità hanno testi storici scritti a tanta distanza dagli avvenimenti che raccontano? Quello che è sicuro è che Pelagio resiste, che non si arrende davanti alla sproporzione delle forze, che usa la croce come vessillo, e che, soprattutto, vince. Siamo nel 722. La riconquista è iniziata. La riconquista comincia da una cima sperduta del Picco d’Europa dove c’è una grotta dedicata a Maria (Covadonga: cueva de Nuestra Señora, grotta di Nostra Signora). Ancora una volta Maria: la tradizione racconta che è Maria a rincuorare Pelagio, ad esortarlo alla resistenza, e che è ancora Maria a vincere i mori rispedendo al mittente le frecce scagliate contro gli spagnoli. La tradizione racconta anche che a Pelagio appare in cielo una croce rossa da lui presa a simbolo del proprio stendardo. Le cronache arabe, ancora più tardive di quelle cristiane, raccontano l’episodio di Covadonga come fosse un fatterello insignificante e irridono Pelagio e i suoi definendoli “asini selvaggi”. L’asino selvaggio Pelagio fonda il regno delle Asturie, un regno cristiano, baluardo della religione e della cultura spagnole.

* Lo scritto è tratto dal libro di Angela Pellicciari, Una storia unica di cui vi consigliamo vivamente la lettura